Certe volte capita che in mare si scatenino tempeste improvvise, che neanche i più esperti marinai sono in grado di prevedere. Il vento comincia a soffiare con una forza inattesa, le onde si alzano, le correnti si fanno impetuose, la pioggia sferza la nave e i fulmini precipitano ruggendo. L’equipaggio, colto alla sprovvista, si affanna a mettere in sicurezza le vele e il timone, ma la forza bruta degli elementi spezza gli alberi e manda gli uomini alla deriva, verso una sorte incerta.
Questo è ciò che è successo alla mia famiglia un sabato pomeriggio di qualche anno fa. Era il 30 novembre 2013 e la giornata scorreva lenta e uggiosa. La solita routine, lo stesso tran-tran di sempre. I miei genitori tornavano da fare la spesa, mio padre guidava la macchina: una piccola utilitaria, comprata da poco per poter fare qualche gitarella domenicale. Ne andavano molto fieri.
Erano quasi arrivati a casa quando la furia degli elementi colpì papà. Non ci fu un’onda di tempesta, né una folgore accecante, né onde colossali: furono minuscoli globuli rossi, nel segreto delle sue vene a spezzarlo e lanciarlo alla deriva. Meccanismi biochimici che ci ricordano che siamo materia che anela al cielo.
Nonostante l’ictus che l’aveva colpito, ebbe la forza di accostare la macchina. Mia mamma, terrorizzata, chiamò l’ambulanza e poi me, che ero a casa loro ad aspettarli.
Ricordo la corsa in ospedale, le attese strazianti, la paura, le lacrime. Mio padre sembrava un pugile che tentava di rialzarsi dal ring dopo un KO. Gli proposero una roulette russa: una terapia che avrebbe dissolto il grumo di sangue ed evitato i danni più gravi, ma che avrebbe anche potuto causare un ictus emorragico, peggiore del primo. All-in. Prendere o lasciare.
Accettò la scommessa. E perse. Ricordo bene quei momenti, le facce serie dei dottori, l’attesa del responso dal centro neurologico che doveva esaminare i dati. Vedevo quell’uomo che era stato l’albero maestro della nostra nave sfasciato dal fortunale. Mi domandavo se stesse soffrendo, se stesse pensando a qualcosa.
Il dottore disse che era andato in stato soporoso, una sorta di coma, e che probabilmente non ce l’avrebbe fatta. Qualora si fosse caparbiamente attaccato alla vita, nessuno era in grado di prevedere in quali condizioni sarebbe stato d’ora in poi.
Magari il suo cervello brillante sarebbe degradato a una condizione vegetale, forse la sua curiosità, la sua arguzia, la sua brillantezza non si sarebbero più svegliate da quel sonno, oppure il suo corpo sarebbe rimasto prigioniero dell’immobilità, le sue funzioni basilari prive di controllo, la parola compromessa. Incubi che affollavano i nostri giorni e le nostre notti. Specialmente quelle di mia madre.
Lei era come un gattino impaurito e abbandonato in una gelida notte di neve, che si guarda intorno cercando un aiuto, un appiglio, una sicurezza.
La nostra barca andava alla deriva, e noi facevamo il possibile per ritrovare una direzione, per mantenere accesa la speranza.
Dopo alcuni giorni, mio padre si risvegliò. Posso solo immaginare ciò che deve essere stato per lui aprire gli occhi e scoprire di non avere più controllo sul proprio corpo, di essere nutrito con un cannello, bloccato in un letto, con difficoltà a parlare, a girare gli occhi, persino a respirare normalmente. Tutto ciò che prima era naturale ad automatico era adesso d’una difficoltà inaudita. Dev’essere qualcosa di assolutamente agghiacciante e devastante, un trauma dal quale difficilmente si guarisce, una tempesta emotiva in grado di distruggere anche l’uomo più forte.
Miracolosamente, la sua intelligenza non fu troppo colpita dal male, ma il suo corpo fu offeso da un’emiparesi sinistra. Cominciò quindi un lungo periodo di lotta, di riconquista di ciò che era andato perduto. Ogni giorno papà combatteva e spesso raggiungeva piccole vittorie: prima muovere una gamba, poi un braccio, poi chiudere bene la bocca, pronunciare le parole correttamente, girare gli occhi. Ancora oggi, a distanza di anni, la lotta non è finita e lui si impegna con grande forza e con incrollabile fede. E questo gli ha consentito di fare progressi all’epoca insperati dai medici e da noi.
Senza che ce ne accorgessimo, giunse Natale anche quell’anno. Organizzammo il pranzo in ospedale: mia madre cucinò con amore, preparando sia cose per noi, che pietanze che lui potesse mangiare. Eravamo insieme, nonostante tutto, tra mille avversità. In qualche modo eravamo davvero una famiglia, uniti come non accadeva da tempo. E questo è, in fondo, il più vero e autentico significato del Natale.
Quell’anno ricevemmo il più bel dono che potesse esserci: mio papà era vivo, contro ogni pronostico, e determinato a combattere. Prove come quelle che avevamo attraversato sono terremoti che riordinano la scala di valori e priorità, e che ricordano che il controllo non è mai nostro. Ritrovare ciò che si crede d’aver perso per sempre è la gioia più grande del mondo.
Può sembrare incredibile, ma credo che quello sia stato il più bel Natale della mia vita. La triste e spoglia stanzetta d’ospedale era improvvisamente una sala da pranzo sontuosamente addobbata, l’odore di disinfettante cannella e vaniglia, la vista sul buio e trascurato giardino esterno era un perfetto panorama alpino, gli allarmi dei macchinari, mille campanelle festose.
Eravamo tutti insieme, uniti nell’amore.