Miriordo (un amarcord di provincia) – Parte 1: Ode alla mia famiglia

Quando ero piccolo mi innamoravo di tutto… correvo dietro ai cani…” [1]

L’immenso Fabrizio De André è stato sicuramente uno dei più grandi poeti italiani del ‘900, e infatti non molti avrebbero potuto descrivere così bene la mia spensierata infanzia di provincia. Con poche parole, senza neppure conoscermi e, per di più, anni prima che nascessi.

Davvero mi innamoravo di tutto, perché ero un bambino curioso e felice. Già cresceva in me quella passione che mi avrebbe portato a diventare uno scienziato, e uno scrittore. Due cose solo apparentemente lontane, ma in realtà più simili di quanto non si pensi. Infatti mentre nei miei lunghi studi di chimica ho imparato a capire la materia, scrivendo imparo adesso a capire la mia anima. È la stessa curiosità che mi spinge.

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Il mio amico Inaco

Le parole solenni e formali del vicesindaco, vestito per l’occasione con un abito scuro, riecheggiavano sui presenti, per poi disperdersi nella fresca aria mattutina della darsena. Era aprile, il 14 per la precisione, una lieve brezza di terra, odorosa di resina e corteccia, giungeva frizzante dalla pineta. Il canale e la darsena antica, invece, odoravano di nafta e olio pesante, prodotti feroci della moderna meccanica. I cantieri aggiungevano a questa schiera di odori il rumore del lavoro degli operai che facevano gridare l’acciaio e ruggire le saldatrici ossiacetileniche. Gli stessi “darsenotti”, anche se non più le stesse facce, a cui Inaco dedicò un così onorevole posto nella sua produzione o, per meglio dire, passione. Intanto passava la solita fila di macchine sull’asfalto freddo. Le strade avevano lo stesso rumore di sempre. Tutto lì intorno sembrava normale. In una di quelle auto un bambino guardava fuori dal vetro del finestrino e chiedeva: “Papà, che fa quella gente?”.

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