Miriordo (un amarcord di provincia) – Parte 1: Ode alla mia famiglia

Quando ero piccolo mi innamoravo di tutto… correvo dietro ai cani…” [1]

L’immenso Fabrizio De André è stato sicuramente uno dei più grandi poeti italiani del ‘900, e infatti non molti avrebbero potuto descrivere così bene la mia spensierata infanzia di provincia. Con poche parole, senza neppure conoscermi e, per di più, anni prima che nascessi.

Davvero mi innamoravo di tutto, perché ero un bambino curioso e felice. Già cresceva in me quella passione che mi avrebbe portato a diventare uno scienziato, e uno scrittore. Due cose solo apparentemente lontane, ma in realtà più simili di quanto non si pensi. Infatti mentre nei miei lunghi studi di chimica ho imparato a capire la materia, scrivendo imparo adesso a capire la mia anima. È la stessa curiosità che mi spinge.

E correvo pure dietro ai cani, letteralmente, perché miei nonni materni avevano due meravigliosi pastori tedeschi che per me erano i destrieri, draghi, compagni di giochi, fratelli e qualunque altra cosa volesse il mio cuore innocente di bimbo. I nonni sono stati i miei secondi genitori: nei miei primi anni di vita sono stato quasi cresciuto da loro perché i miei dovevano lavorare. Si sa che la nostra società si riempie la bocca di belle parole, ma poi fa di tutto per non far fare figli alla gente…

Casa dei nonni era tutta bellissima, ma la parte più bella era il giardino. Ho dei ricordi indelebili di quel grande, fresco angolo di campagna nel cuore di Viareggio. Era la mia giungla, la mia savana, il mio regno. Il piano terra della grande casa era la zona giorno, il primo piano un piccolo appartamento dove dormivo con i miei e il secondo la zona notte dei nonni e dei miei due zii, all’epoca strani giovanotti simpatici. Infine c’era una soffitta buia dove mi avventuravo a caccia di ombre e antichi tesori. Mia nonna era la forza buona che teneva insieme tutto quel piccolo mondo: era un angelo. Lei mi ha insegnato tutto ciò che serve nella vita: donare. Donarsi senza limiti, senza paura, senza calcolare le conseguenze. Amare per amare, semplicemente. L’immensa forza della sua debolezza è uno dei più preziosi tesori che conservo nel mio cuore.

Era una persona molto profonda, ma semplice, decisamente modesta pur essendo fuori dal comune (classe 1919, laureata… e non importa aggiungere altro). Una donna genuinamente cattolica e incredibilmente devota, ma molto più aperta, comprensiva e tollerante di tanta gente moderna. Per darvi la misura di ciò che dico, sappiate che spesso trovavo meglio a confidare le mie esperienze e ansie da adolescente a lei che non ai miei.

Mio nonno era invece l’autorità buona, la legge che sa farsi dolcezza. Mi raccontava le meraviglie della sua isola lontana, ascoltavo rapito la bellezza della lingua sarda, mi perdevo nelle sue idee, e nel mare delle sue conoscenze, immerso tra i suoi libri dai quali vedevo il mondo come da una finestra.

A qualche angolo di distanza abitavano i miei nonni paterni. Loro erano l’essenza stessa di quella Viareggio ariosa, profumata di panni appena lavati, intima di cortili, semplice e schietta. La piccola Viareggio del mio oratorio, della mia spiaggia affollata, profumata di focaccia e bomboloni, delle sere afose sul molo e dei pomeriggi in pineta. Quella che giravo in bicicletta e a piedi, il mio primo amore.

Mio nonno era marinaio, medaglia d’oro di lunga navigazione, nato da famiglia marinara, mentre mia nonna era di origine contadina. Erano entrambi nati poveri e non avevano potuto studiare, il che era un gran peccato perché erano persone molto acute. Non parlavano italiano, ma vernacolo viareggino e le loro espressioni antiche sono un ricordo che conservo con amore.

La loro casetta, che in realtà non era loro ma in affitto, era umile e ordinata. Aveva un sacco di profumi: il sapone con cui i miei nonni si lavavano abbondantemente appena svegli, la varechina con cui nonna puliva tutto, l’aglio e il rosmarino della cucina di mare del nonno. E ancora l’odore dolce della tisana di erbe e il profumino, immancabile, del pesce sul fuoco.

Da loro ho imparato la semplicità e la dignità nell’umiltà. Mia nonna era una donna buona e generosa. Quando noi nipoti andavamo a trovarli, lei ci dava sempre qualche soldino: “Vesti vì enno per e’vizzi” [2] o magari “per il gelato, ve lo mangiate voaltri anco per noi” [3].

Di mio nonno conservo vividi i racconti da lupo di mare e mi pare di aver navigato quei posti lontani con lui: da Venezia lungo le coste yugoslave, poi giù giù fino al Pireo e infine tra le isole greche verso la Turchia. Oppure in Corsica, a far scalo a Portovecchio, e nell’assolata Sardegna, dove scambiavamo il pesce col formaggio. E ancora nel labirinto di scogli e cristallo dell’Arcipelago Toscano, per rifornirsi alla Colonia Penale Agricola di Capraia. Oppure lungo le coste liguri e poi su fino al Golfo del Leone, e di nuovo giù in Spagna e poi oltre Gibilterra, fino alle Canarie. O in Tunisia e in Marocco, a scaricare le acciughe, e poi a sud, dove il deserto si getta nel mare e si vedono i leoni e ancora più a sud, fino al Senegal misterioso. Ho nostalgia di viaggi mai fatti e di mari mai conosciuti e, se chiudo gli occhi, mi pare di sentire gli odori che respirò mio nonno.

A casa loro ci ritrovavamo spesso insieme a mio zio, fratello di mio padre, e la sua famiglia. Le sue figlie, le mie cugine, erano più o meno d’età con me e mio fratello perciò siamo cresciuti a stretto contatto. Abbiamo condiviso un sacco di bei momenti e ricordo con piacere le battute, sempre pronte, di mio zio, i pranzi, le cene, le gite e le ore a giocare con loro.

A quell’epoca io ero piccolo e i miei genitori erano sempre giovani, la vita non aveva ancora mostrato loro le sue zanne affilate. Come genitori sono stati perfetti: non hanno sbagliato niente, perché tutti gli errori che hanno fatto, li hanno fatti per amore. Mi hanno donato solidi principi, un’educazione classica, una vita senza sacrifici e tutti loro stessi. E siccome questo non bastava, mi hanno regalato anche un fratello, cosa che ha reso la mia infanzia decisamente più bella. I fratelli infatti sono quegli strani individui per i quali provi una specie di odio-amore, con i quali litighi spesso, ma con cui hai un tipo di legame di incredibile intensità.

I miei genitori mi hanno insegnato il sacrificio perché tutta la loro vita hanno messo me e mio fratello davanti a loro stessi, e ora che noi siamo grandi e loro più stanchi, mi rendo conto davvero di quanto hanno fatto e di come sia difficile riuscire a restituire loro anche solo una piccola parte di tutto questo.

Mio padre ha un’intelligenza straordinaria: ha conseguito tre lauree lavorando nel frattempo, ha scritto otto libri [4], è un ottimo pittore e in generale riesce in tutto ciò in cui si applica. Nonostante questo, è una persona di straordinaria modestia e semplicità. Parlare con lui è uno stimolo e un piacere. Ha una forza di volontà d’acciaio e una fede incrollabile, il che gli ha consentito di riprendersi da molti duri colpi della vita, non ultimo un terribile ictus. Oggi come allora è lui il mio eroe.

Mia madre è una donna molto dolce. È la mamma per antonomasia, la chioccia che coccola e difende i suoi pulcini. È sempre disponibile, sempre presente. Dimostra un amore avvolgente e gratuito, che solo le mamme sanno dare. Quando da piccolo l’abbracciavo, scompariva tutto il mondo tranne noi. Non c’erano più problemi né cose brutte, mi perdevo dolcemente in un mare d’amore. Guardavamo insieme gli animali e i draghi e i fiori che per gli altri erano semplici nuvole.

Queste sono le mie radici, e io sono cresciuto su di loro, fino diventare l’uomo di oggi. Alla fine ognuno di noi è il risultato delle proprie esperienze. Perciò è importante ricordare e capire.

Il nostro cuore è una casa i cui mattoni sono frammenti di vita: racconti, facce, corse, giochi, liti, incontri, risate, cene, pianti… E, come in tutti gli edifici, le fondamenta sono la parte più importante. Nelle mie, ad esempio, c’è un bambino che si innamorava di tutto e correva dietro ai cani.

Continua nella Parte 2…

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[1] Fabrizio De André, Coda di Lupo, 1978, dall’album Rimini
[2] “Questi sono per gli svaghi” (letteralmente “per i vizi”)
[3] “Per il gelato, mangiatelo anche per noi
[4] Lista delle pubblicazioni di Giovanni Levantini:
– L’Istituto dei “Poveri Vecchi”, Edizione della Fontana, Viareggio 1994
– Il Marconi – Una scuola alla ricerca di una sede – Annuario, Pezzini Editore, Viareggio 1997
– Le piazze del mercato di Viareggio, Pezzini Editore, Viareggio 1998
Salviamo il nostro cuore verde – Storia di una pineta, Pezzini Editore, Viareggio 1999
Mario Tobino – I luoghi della memoria (con videocassetta allegata), Pezzini Editore, Viareggio 2000
Quando i polli si spennavano a mano. Memorie di gente e cibi del passato, Pezzini Editore, Viareggio 2001, ISBN: 9788896915608
Un viareggino di nome Inaco, Pezzini Editore, Viareggio 2003, ISBN: 9788888522067
La liturgia epifania della Chiesa. La riforma liturgica a Lucca durante gli episcopati di E. Bartoletti e G. Agresti, Edizioni EDB, Bologna 2007, ISBN-13: 9788810440032, ISBN-10: 881044003X

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4 risposte a "Miriordo (un amarcord di provincia) – Parte 1: Ode alla mia famiglia"

  1. Bel racconto…. bello l’entusiasmo per le cose… soprattutto per le cose semplici…. bello l’essere curioso… il saper ascoltare e vivere le cose della famiglia… un grande dono sapere…. rivivere immagini e ricordi delle persone a cui vuoi bene, un po come rivivere le loro emozioni.

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